L’assoggettamento di una strada privata a servitù di uso pubblico in relazione all’interesse della collettività di goderne quale collegamento fra due vie pubbliche non implica la facoltà dei proprietari frontisti di aprire accessi diretti dai loro fondi su detta strada privata, comportando ciò un’utilizzazione del bene più intensa e diversa, non riconducibile al contenuto dell’indicata servitù (Cass.5045/2018).
Tizia conveniva in giudizio dinanzi al pretore di Acireale Caio, Mevio, Sempronio e Caietto, atteso che quest’ultimi avevano illegittimamente aperto un varco su una strada di sua proprietà, allo scopo di accedere al loro terreno, nonostante fossero privi di un diritto di servitù di passaggio, al fine di ottenere la condanna all’eliminazione del varco e di tutte le opere prodromiche compiute dagli stessi. La domanda veniva rigettata, dal momento che la Pretura riteneva che la strada oggetto della controversia fosse di proprietà comunale. In seguito, il Tribunale di Catania rigettava sia l’appello principale che quello incidentale concernente le spese degli appellati. La Corte di Cassazione, investita del ricorso, interveniva rilevando un vizio di motivazione della sentenza gravata, in quanto l’attrice aveva sempre sostenuto come solo una parte del fondo di sua proprietà fosse stato adibito a strada con servitù di uso pubblico, sicché i convenuti per accedere dalla detta strada al loro fondo, avrebbero dovuto necessariamente attraversare una porzione di terreno sempre dell’attrice che non aveva ricevuto la destinazione pubblica. La Suprema Corte accoglieva quindi i primi due motivi di ricorso principale, rimanendo così assorbiti gli altri motivi del ricorso e rinviava così la decisione nuovamente al giudice di merito, il quale condannava Caio, Mevio, Sempronio e Caietto alla chiusura del varco. A sostegno di tale decisione, erano state dedotte in giudizio le indagini peritali, dalle quali emergeva in primo luogo che lo stato dei luoghi era mutato, non esistendo più quella striscia di terreno che separava il fondo dei convenuti dalla strada oggetto della controversia. In seconda battuta, si rilevava come fosse stata acquisita agli atti un’attestazione del Comune da cui emergeva come quella strada fosse privata e da oltre vent’anni di uso pubblico, avendo sempre il Comune compiuto atti di manutenzione ma non essendo mai stati posti in essere atti traslativi a favore dell’ente locale. Ciò portava la Corte a ritenere la strada non fosse un bene demaniale, così come sostenuto dai convenuti, trattandosi al contrario di una strada privata di pubblico passaggio. Ne conseguiva che il varco aperto dai convenuti fosse illegittimo, richiamandosi il principio giurisprudenziale secondo il quale, pur in presenza di una strada privata sottoposta a servitù pubblica di passaggio, non è dato al proprietario del fondo confinante aprire direttamente accessi alla strada privata, trattandosi di un’utilità che esula da quelle derivanti dall’uso pubblico, e che non può essere nemmeno oggetto di concessione amministrativa. Caio, Mevio, Sempronio e Caietto presentavano così ricorso per cassazione.
Gli Ermellini ritenevano che, nonostante fosse stato accertato che Tizia fosse mera usufruttuaria del fondo, dal momento che la nuda proprietà era stata trasferita ai suoi germani, comunque la ricorrente conservava la propria legittimazione a proseguire il giudizio, dato che il trasferimento della nuda proprietà da parte della ricorrente era avvenuto solo in corso di causa. Aggiungeva la Corte che vi era stato un puntuale accertamento da parte dei giudici di merito circa il superamento della presunzione di demanialità del bene in questione.
Per quanto concerneva la questione della legittimità o meno relativa all’apertura del varco da parte dei convenuti, la Corte ribadiva che l’assoggettamento di una strada privata a servitù di uso pubblico in relazione all’interesse della collettività di goderne quale collegamento fra due vie pubbliche non implica la facoltà dei proprietari frontisti di aprire accessi diretti dai loro fondi su detta strada privata, comportando ciò un’utilizzazione del bene più intensa e diversa, non riconducibile al contenuto dell’indicata servitù.